Le parole tra le stanze

La noia: un’emozione da letto

Tempo di lettura: 7 minuti

La noia: condizione esistenziale e sentimento caro per alcuni, difficile da abbandonare, poiché nasconde la paura per l’ignoto e per i nuovi percorsi su di sé che coinvolgono gli altri.

Quante narrazioni, devote al pensiero lineare, prefigurano un nesso di causa ed effetto tra fatti o rappresentazioni sociali, e nel caso specifico tra il provare noia e il fare sesso?

I protagonisti di queste storie arrivano ad uno studio di psicoterapia con una autodiagnosi in tasca che convenzionalmente definiscono dipendenza dal sesso, e sono solo uomini.

LA FUNZIONE DELLA NOIA: il copione è già scritto [1/3]

Su un piano squisitamente clinico, le narrazioni fornite durante questo tipo di incontro si riferiscono al solo piano concreto e pratico delle cose. In loro, domina l’iperconcretezza, che è una forma di ossessivizzazione se vogliamo: dove le emozioni sono ridotte a fatti e prevalgono forme di pensiero volte all’intellettualizzazione o razionalizzazione. Le relazioni amorose sono spesso pervase da fantasie idealizzate del sesso nella coppia, che sfociano in questo caso, nell’ossessione per la ricerca concreta e ripetitiva del piacere fisico che soddisfa.

Parlando di sé, sono persone che espongono una condizione non più transitoria, ma duratura di insoddisfazione frustrante o di indifferenza inquieta, che fanno dipendere dalle caratteristiche proprie o di chi incontrano.

Affermano di non provare empatia nei confronti degli altri e di sentirsi tristi, poiché il loro vivere quando non li annoia, comunque li stanca e li sfinisce. Esprimono terrore per la morte. E il tempo che passa è odioso e fastidioso, al pari del natale che per convenzione arriva sempre dopo le vacanze estive. Per questi uomini il presente non deve cambiare. Mai.

La vita relazionale e affettiva descritta appare depauperata di qualsiasi slancio affettivo riconosciuto. Gli incontri con familiari quando avvengono, sono incontri formali e di circostanza, al pari di ogni ricorrenza stabilita da chi sa chi anche per conto loro. Unica area di investimento è quella lavorativa, quella concreta, dove sembrano mostrare alto senso di responsabilità, o alte prestazioni e rendimento, o successo.

In definitiva, la vita narrata è una serie di accadimenti dove un copione scritto sembra ripetersi per eccesso o per difetto, ma non si espande, non cresce e non evolve.

Per gli addetti ai lavori avere a che fare con persone che si definiscono dipendenti dal sesso significa avere a che fare con clienti difficili, e non perché siano difficili loro, ma perché è complicato avere a che fare con il resoconto che portano della loro vita relazionale. Seduta dopo seduta tendono a proporre infatti un resoconto piatto, ripetitivo e noioso della vita psichica. E il risultato è che la noia finisce col pervadere anche la stanza del terapeuta, e la relazione stessa ancora da principiare.

È come se la noia avesse una precisa funzione nell’incontro con l’altro. Sì, ma quale?

La noia in questo scenario è il senso, è la condizione psicologica più congeniale per queste persone, poiché essa è ciò che gli permette di ritornare sul già conosciuto e di ripetersi. Permette di navigare in superficie, senza mai approfondire. La noia rifiuta le profondità e ciò che è oscuro perché incomprensibile. Ripudia ogni depressione.

Nella stanza del terapeuta così come nelle loro vite, la condizione psicologica della noia allontana la paura e ogni possibilità di pensarla. Evita di contattarla.

Nello specifico, la noia sembra sostituirsi alla paura per la scoperta del nuovo che accompagna l’esperienza di ogni incontro. Farne esperienza è un po’ come scoprire qualcosa su noi e qualcosa sugli altri; è possibilità di lasciarsi contaminare e farci cambiare da quell’incontro. Attraverso esperienze emotivamente profonde in grado di coinvolgerci e di smuovere le nostre certezze.

Potremmo ipotizzare che i nostri protagonisti procedano con l’illusione di evitare ogni dolore o la sensazione sgradevole di sé di fronte all’indesiderato e al desiderato non raggiunto, ottenuto.  Di evitare cioè quote di frustrazione.

Negare il dolore però è come perderlo per sempre. E con esso, si rischia di perdere le tracce di ciò che siamo: di ciò che ci fa stare bene e di ciò che ci fa stare male, di ciò che ci piace e di quello che non ci piace.

Ciò che neghiamo a noi stessi in questi casi, sembra essere l’esperienza psichica del dolore, della sua memoria storica e della sua rinnovata pensabilità.

LA NARRAZIONE DEI PROTAGONISTI: piovono rane dal cielo [2/3]

Le narrazioni dei protagonisti di queste storie si assomigliano tutte quando richiamano l’esistenza di un forte legame tra la noia e il sesso: Ho un problema di dipendenza dal sesso, Fare sesso mi annoia, Mi ritrovo a cambiare spesso partner, almeno così non mi annoio, Non riesco a non tradire mia moglie, forse è la noia. Sono grave.  Queste condizioni di partenza sono parte integrante della problematica a mio avviso, o almeno del come viene narrata l’intera vicenda amorosa e di sesso.

I protagonisti giungono ad una conclusione di gravosità circa la propria condizione di dipendenza, che per la verità non sembra lasciare molto spazio ad una differente lettura. Il focus inoltre è sui comportamenti di ricerca di piacere continuo, come piacere in sé, e non come relazione con esso. Con un totale disinteressamento alla propria vita interiore, e su ciò che accade quando sono in intimità con se stessi e con gli altri.

Sono storie quindi che per come vengono poste, non sembrano portare con sé alcuna possibilità di comprensione, né di una reale domanda in tal senso. Per le quali, lo stesso percorso psicoterapeutico è volto piuttosto a confermare che tutto il mondo fuori funzioni allo stesso modo, e che non ci sia alcuna possibilità di trasformare la propria situazione attuale. La formulazione della domanda è intrisa inoltre di una fantasia forte riguardo a se stessi che potremmo definire di malfunzionamento: Ho qualcosa che non va, Devo assolutamente smettere di fare così, Mi devo dare più regole, perché così non funziona. E quel che si chiede al terapeuta è semmai di sistemare le cose, così da ripristinare un funzionamento andato perduto.

In questi casi, siamo di fronte alla ricerca di soluzioni semplici e operative a problematiche complesse.

Ed infatti, come se improvvisamente piovessero rane giù dal celo, le persone raccontano che il fare sesso ha preso di colpo il sopravvento su tutto il resto, finendo con l’occupare tutto lo spazio mentale e fisico della loro vita relazionale.  La ricerca del piacere fisico e di incontri tra corpi nudi di perfetti sconosciuti si ripete anche più volte al giorno o alla settimana, e sono intervallati da pratiche di autoerotismo anche con l’ausilio di video porno. Le emozioni ricercate sono quelle estreme e i loro movimenti carichi di entusiasmi brevi, passeggeri, ma intensi. La ricerca di situazioni di promiscuità sessuale permette loro di sentire slanci emotivi dispersi e diluiti e si mostra capace di soddisfare a pieno i propri bisogni impellenti. Gli incontri occasionali in aereo, in treno o ad una mostra, forniscono loro adrenalina e un piacere che deriva dalla ricerca ripetitiva dell’esperienza del nuovo. Una ricerca illusoria.

Arriva un giorno infatti, in cui ci si sente sfiniti e depauperati di se stessi. L’azione del fare sesso sempre e comunque, finisce col sostituirsi a qualsiasi pensiero su di sé e su come ci si senta. L’azione prevale e il pensare si fa carico di paranoie e ossessioni. È piuttosto lo sfinimento fisico che porta alcune di queste persone a formulare una domanda di aiuto psicologico. Il corpo cede e non ce la fa più, e si avverte un grande vuoto e un disagio esistenziale profondo, incomprensibile, rispetto al quale rimanere indifferenti appare altrettanto difficile.

LO SGUARDO CLINICO: introdurre la propria poetica sui fatti [3/3]

La storia personale che ne consegue e che giunge fino a noi, è intrisa dal mito dell’assenza del dolore come requisito per un buon funzionamento. Un resoconto che abbiamo definito piatto, ripetitivo e noioso della vita psichica. E quando noi terapeuti proviamo ad allargare il campo di comprensione della storia che ci propongono, perturbiamo l’ordine perseguito e compiuto. Attacchiamo l’idea ossessiva della realtà sempre uguale a se stessa, quella conosciuta e perciò controllabile. Attacchiamo quindi il mito dell’ordine e del controllo sulla realtà interna, oltre che esterna. Ed infine, attacchiamo la tirannia in atto nel soggetto che mira a contenere l’angoscia derivante da esperienze nuove e differenti, e dalla consapevolezza che piacere e dolore viaggiano assieme.

Parafrasando Bollas, attacchiamo il loro mito della normalità, dove i problemi vengono evitati, ignorati, rifuggiti, e tutto ciò che appare difficile lo è. E quando gli proponi in terapia di pensare a tutto questo, gli stai proponendo la complessità. Gli stai proponendo di pensare al dolore, di sentirlo, e non rifuggirlo.

In questi casi, si riscontra una significativa difficoltà nei nostri protagonisti a lasciarsi andare nel compiere libere associazione, e a dare valore all’anamnesi.

Narrare la propria storia in questi casi è fondamentale, ma non scontata. È un obiettivo da perseguire, non un punto di partenza.  È una scelta.

Raccontare la propria storia significa permettere di recuperare che cosa è successo, ma anche dove e quando un fatto ha avuto luogo, recuperando così una struttura relazionale coerente con il contesto che l’ha generata. Il ricordare crea inoltre legami inaspettati tra le cose, istituendo trame altrimenti invisibili, e offrendo l’opportunità di riattraversare la propria storia per sviluppare nuovi modi di pensarla e significarla.

Mi tornano alla mente, a tal proposito, le parole dello psichiatra e psicoanalista Antonello Correale quando sostiene di introdurre il senso poetico delle cose in terapia. Il termine poetico richiama la non utilità dell’oggetto afferma: è il poeta che rimane fermo all’oggetto; poetico è quindi un oggetto in sé, senza utilità, ma con un significato intrinseco.

Introdurre un significato poetico nella clinica in questi casi, significa permettere di introdurre i propri significati su quanto vissuto, la propria poetica sui fatti, e di ripercorrere in modo creativo, costruttivo e intimo, la storia delle proprie relazioni per rintracciare nuove modalità di pensiero su di esse. Il fine ultimo rimane quello di promuovere un possibile sviluppo della storia che queste persone raccontano di sé, oggi.

Incontro dopo incontro, le parole ascoltate conferiscono valore alla propria storia attuale, che diventa possibilità di riconoscersi in essa, e contaminazione con altre parole emozionate.

Rinarrare la propria storia diviene così non solo legittimazione ad esistere, ma anche ad appartenersi, come possibilità di avere un profondo desiderio di sé.

La mia proposta è quella di ripensare alla categoria della noia, che nel nostro immaginario viene più spesso rappresentata come la condizione che spinge, smuove e che ci porta a fare qualcosa o a ricercare qualcuno. Mentre viene poco pensata in tutte quelle circostanze, in cui appare piuttosto un utile modo per rifuggire da qualcosa o fuggire di nuovo da qualcuno.

L’ipotesi è che la condizione di persona annoiata sia quasi una sorta di equilibrio auspicato, perché capace di evitare il contatto con le proprie emozioni più profonde e intime. Soprattutto quelle considerate spiacevoli o piacevoli ma che comunque ci mettono a disagio, o che sono legate ad esperienze di assenza simbolica o di perdita reale, in talune circostanze.

In altre parole, in queste storie le conseguenze sostituiscono le premesse con le quali i protagonisti scelgono di relazionarsi.

L’accento sulla noia come condizione psicologica ci informa infatti su come la persona si pone in relazione col mondo esterno e con se stesso, e suggerisce loro come farlo: con gli altri senza alcun coinvolgimento emotivo duraturo nel tempo. Poiché il tempo che passa fa perdere di intensità ad ogni incontro, ed è svilimento e umiliazione di sé. E con se stessi, quando persegue una condizione di evitamento del dolore; riduce o elimina ogni possibilità di un coinvolgimento emotivo profondo, attraverso l’azione priva di interesse e di sentimento, capace di negare il desiderio di un’intimità con se stessi.

In tutte queste storie, come in molte altre che possiamo pensare, la noia viene usata come effetto dell’incontro che si ripete nel tempo, piuttosto che come condizione emotiva che finisce col costruire e connotare le nostre stesse relazioni attraverso il tempo.

 

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