La malattia nasconde spesso ciò che non riusciamo a dire e ciò che non riusciamo a pensare.
Cela e maschera i segreti che teniamo con noi stessi.
E ipotizzo esista almeno una menzogna per ogni malattia.
Accade spesso che ci accorgiamo del corpo quando si ammala. Lo pensiamo quando smette di funzionare e si fa sentire. È il dolore che ci parla e noi ci mettiamo in ascolto, ma è la preoccupazione e il bisogno di eliminare quel dolore che ci attiva e ci porta a chiedere un aiuto.
In queste circostanze, il corpo diviene esperienza di un ostacolo e percezione di un fallimento perché non ci permette di fare quello che desidereremmo, e ci obbliga a fermarci e a rinunciare ai nostri impegni importanti. Altre volte diviene esperienza di vera e propria perdita, di una parte di noi o dell’immagine di noi fino a quel momento forte e per taluni invincibile. Sperimentiamo una sensazione di instabilità e di precarietà per nulla piacevole, e l’unica cosa che desideriamo è eliminare il problema o la causa per tornare ad essere quello che eravamo prima.
Per la verità ci accorgiamo del corpo anche quando ci rende protagonisti di imprese e alte prestazioni, basti pensare allo sport e alla danza, ma anche alle maratone lavorative o di studio, quando restiamo svegli la notte per portare a termine un nostro obiettivo. E al mattino seguente ci sentiamo stanchi, ma soddisfatti.
Il corpo in queste altre circostanze è possibilità, è superamento dei propri limiti e ostacoli, è vittoria, ed è conquista, e siamo portati a pensare al nostro corpo come sano e salutare, o piuttosto a percepirlo come capace e funzionante, perché prestante.
È davvero così?
Viviamo intere esistenze muovendoci da una esperienza di perdita ad una di conquista, ma in mezzo cosa c’è?
Mi sono ritrovata così a ripensare ad uno dei libri di Sándor Márai, La Sorella, nel quale lo scrittore riesce a parlare meravigliosamente della malattia. Anzi, per la verità ci porta a scoprirla lentamente, ponendoci come ascoltatori silenti delle vicende intime del suo protagonista: il grande musicista e pianista ungherese, il celebre Z si trova nel letto di uno ospedale di Firenze e la sua carriera artistica ha subìto per questo un arresto inatteso e maldigerito.
Nel romanzo, le malattie vengono descritte come drammi silenziosi che si protraggono per decenni, come nemici invisibili, carichi di una tensione spenta ed esangue.
Sono come drammi che non hanno voce, né palcoscenico.
Viviamo vite provando a silenziare continuamente le nostre verità interiori, i nostri pensieri più profondi e le nostre idee più rivoluzionarie. Viviamo allontanandoci sempre più da quello che siamo e desideriamo, trascurando ciò che ci rende più felici o sereni. È come se dovessimo assolvere compiti altrui, mandati sociali, e finiamo col dimenticare di connetterci con la nostra parte più autentica, per scoprire la nostra stessa natura, fatta anche di pensieri taciuti, di sentimenti altri e di desideri nascosti.
Eppure ogni stato fisico ha un correlato psicologico e viceversa, come ipotizza la psico-neuro-endocrino-immunologia (PNEI), che studia scientificamente le conseguenze fisiologiche o al contrario patologiche delle nostre emozioni sull’organismo. Corpo e emozioni viaggiano assieme e le sensazioni corporee potrebbero aiutarci a conoscere meglio ciò che proviamo, e a ricostruire una mappa per comprendere il nostro sentire intimo e profondo.
Allora dov’è la menzogna? Dove si nasconde e che forma assume?
Nel libro La sorella, ad un certo punto il protagonista chiede ad uno dei suoi medici:
“Da quale menzogna di tutta una vita è scaturita la malattia? Come ha fatto a scaturire dagli oggetti di quella stanza, da quei mobili, da ciò che è successo nel corpo e nell’anima di quell’uomo, un determinato fatto fisico, che sia calcolo biliare, acidità gastrica o trombosi?”
“La sua anima è sana maestro, ma il suo corpo ha subito una menzogna, una specie di intossicazione. Il più delle volte non si scopre quale sia questa menzogna. […] La menzogna è quella che fino al giorno prima si chiamava lavoro, o dovere, o ambizione, o amore, o famiglia. Ci vogliono mille, diecimila giorni e notti affinché in un corpo, e al suo interno in un sistema nervoso, nei centri sensori, quella menzogna si trasformi nell’unica insopportabile realtà; finché un giorno l’organismo, l’intero individuo, con un atroce rantolo, si mette a urlare al mondo sotto forma di malattia quella menzogna, che nel frattempo si è tramutata in un’intollerabile sensazione di panico. Urla che non tollera più il proprio ambiente, o la propria vanità, o la routine con cui ha cercato di stordire, come con un narcotico, il vuoto esistenziale; che non tollera più quel esercizio meccanico in cui si è trasformato il talento che Dio gli ha donato. E allora geme, e urla, ed è assalito dalla nausea come se l’avessero avvelenato”.
La nausea nel romanzo è la malattia stessa che parla, che comunica e si fa sentire.
La nausea è un sintomo che ci informa e ci interroga, al pari di qualsiasi oggetto che custodiamo in casa per anni e che porta l’impronta appiccicosa della nostra vita.
Quando manifestiamo un sintomo di malessere fisico dovremmo metterci in ascolto per interrogare i segnali e i segni che il nostro il corpo ci invia in un dato momento della nostra vita.
Eppure, quel che accade, è che continuiamo a parlare del nostro corpo facendo riferimento alle sue parti, raramente alla sua unità. E ci preoccupiamo di organi e di apparati percepiti separatamente, di sintomi interpretati in modo avulso dalla vita che conduciamo e dalle relazioni entro cui siamo immersi. Finendo con l’assumere farmaci quotidianamente e con disinvoltura.
Al contrario, cercare anche il perché di un sintomo vuol dire andare a ricostruire il motivo interiore che genera la nostra sofferenza, significa ricostruire un dialogo con noi stessi e con la nostra parte più profonda e autentica.
Antonio Scardino, che di mestiere fa il medico di base e l’immunologo, ha dedicato un intero libro ai risvolti psicologici ed emotivi delle patologie. Per lui il sintomo è un linguaggio, e attraverso di esso il corpo esprime l’indicibile. Suggerisce con molta delicatezza e rispetto come in molte malattie del corpo ci sia un messaggio più profondo, fatto di tante parole che non abbiamo il coraggio di dire.
Ho sempre immaginato il medico di base come una persona completamente immersa nelle vite dei suoi pazienti, più o meno desideroso di esserlo, per carità, ma di sicuro un ascoltatore prescelto di nevrosi quotidiane, di reazioni psicosomatiche lente o improvvise, di mali oscuri innominabili; e non ultimo raccoglitore delle preghiere laiche cariche di speranze. E la lettura di questo suo libro ha finito col confermare questa mia fantasia.
Il suo è un puntuale viaggio sui differenti modi di raccontare le storie delle malattie. È ascolto e raccolta di indizi capaci di correlare e di integrare la mente con il corpo, di cogliere il significato simbolico di ciò che sentiamo e che viviamo attraverso il nostro organismo, che diviene così il teatro delle cose che ci accadono.
Le narrazioni offerte sia dallo scrittore Márai che dal medico Scardino, ci ricordano come sia possibile accedere alla conoscenza di noi stessi attraverso altre strade, quelle dove anche le parole che non abbiamo il coraggio di dire assumono valore, così come i segreti che teniamo in piedi, nascondendoli nel tempo in uno scarabattolo che chiamiamo corpo.
Ci suggeriscono che siamo molto di più del nostro stato di salute o di malattia, vissuti come categorie a sé, anche se come stati passeggeri, semipermanenti, o cronici. E che la medicina fa tanto, ma non è il nostro tutto, poiché la malattia non siamo noi, e nessuno può prescrivere la vita sotto forma di farmaci.
Se si vuol stare bene bisogna anche comprendere, prendere consapevolezza del valore simbolico dei nostri sintomi e dei segnali che mettiamo in piedi in un dato momento della nostra vita, tenendo conto anche della nostra storia, che è fatta di relazioni e di emozioni. Che il dialogo con noi stessi è utile, così come quello avviato con chi decidiamo di parlare del nostro malessere, e che è nella memoria che ci percepiamo interi, ed è nell’azione del ricordare quello che abbiamo vissuto, che possiamo sentirci anche più liberi di essere noi.
L’esperienza che definiamo malattia secondo questi autori, sembra essere quindi più un viaggio di guarigione da raccontare, che una cura soltanto da richiedere.
- La sorella, S. Márai, A. Edizioni, 1946
- Il linguaggio segreto degli organi, A. Scardino, Riza, 2013